Barbe à Papa Teatro
COSA SIGNIFICA FERMARE UN EMERGENTE?
di Federica D'Amore
Due anni fa io e la mia compagnia, Barbe à Papa Teatro, presentavamo Il coro di Babele al pubblico per la prima volta, al Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro (Civica Accademia d'Arte Drammatica "Nico Pepe" di Udine). Assistevamo a una maratona di 7 ore di teatro e condividevamo il palco con altre 22 compagnie emergenti. In una sala teatrale si coordinavano un centinaio di persone, più il pubblico, con cura e cooperazione, perché di questo è capace il teatro.
Oggi sarebbe impensabile.
Il coro di Babele ha alle spalle un cospicuo numero di esperienze: ha incontrato platee di ogni età, è stato realizzato nei teatri e in luoghi non convenzionali, si è adattato alla pandemia (ad agosto siamo andati in scena con guanti e mascherine) e si è fermato proprio alla vigilia di una tournée che da Partinico ci avrebbe portati a Napoli, a Roma, in Veneto, fino ad Avignone. I contatti sono rimasti e resta la promessa di provare a far viaggiare ancora il nostro spettacolo, rilanciando con una nuova primavera, culturalmente più florida. Si spera.
Ma la primavera è lontana, e quando sei giovane e precario non puoi permetterti di stare fermo un anno. Non lo puoi fare perché i desideri sono impazienti, scalciano nel cuore, le gambe implorano la corsa, le scapole cercano il punto più alto per planare. Tutta la macchina corporea vive una sorta di eccitazione creativa che si attiva ogni volta che i desideri di un giovane precario incontrano quelli di un suo simile. È questo il meccanismo, credo, che genera le giovani compagnie, i collettivi, le piccole associazioni. Quei gruppi che difficilmente riescono a farsi strada nelle vie principali, e grazie a questo ostacolo spesso finiscono per tagliarne una da zero, la propria, inventando un nuovo punto cardinale, intuendo direzioni inedite e inesplorate, offrendo luce dove trovano buio. Quei gruppi che portano il teatro e la cultura dove le istituzioni spesso non arrivano.
Cosa significa, dunque, fermare un’intera classe emergente? Significa tagliare i capillari di un sistema culturale già abbastanza urbanocentrico.
In cosa si trasforma questa eccitazione creativa in un giovane arrestato dalla propria epoca, dalle crisi economiche e sanitarie? È possibile sopprimere un tremore fisico? E un tremore interiore, un’urgenza? Non lo so. Ma so che quando sei giovane - e in Italia lo si è a lungo - devi andarti a mangiare il mondo prima che il mondo divori te, come un Saturno insormontabile che ti strappa la testa, i sogni e, dunque, l’identità. Non siamo quello che siamo, siamo quello che desideriamo. A qualsiasi età.
Noi, come singoli e come compagnia, non ce la siamo fatti dire due volte la parola “ripartenza”, la parola giusta che avrebbe dimezzato l’attesa e che, con dovute riserve e timori, ci avrebbe fatto ripartire davvero, quantomeno con l’entusiasmo. Non che la nostra attività si fosse mai propriamente fermata, e nemmeno il nostro entusiasmo, ma il teatro, quello che non può prescindere dalla sala prove, non poteva certo essere sostituito dalle riunioni telematiche, seppur innumerevoli. Riappropriarci del nostro lavoro, per altro con mezzo anno di ritardo rispetto ad altre categorie (escludo le attività estive per motivi lapalissiani) era quanto di meglio potessimo desiderare, considerate le prospettive. Significava incontrarsi, ritrovare il senso delle nostre scelte personali e farci pace, ma soprattutto portarsi in pari nella classifica della dignità.
Speravamo nella primavera e ci siamo trovati a puntare tutto sull’autunno, partorendo un nuovo spettacolo, tale era la nostra carica creativa. Nonostante il periodo, eravamo pronti a tornare in scena con tutte le nostre energie, con tutta la gioia e la fatica che costa essere una compagnia emergente nel 2020.
Abbiamo avuto la fortuna di debuttare con la nostra seconda produzione Mi ricordo davanti a una platea “piena”. Piena per quanto possibile.
E come siamo stati attenti, noi teatranti tutti, a cercare di dare l’esempio, limitando al massimo il rischio di generare focolai, cercando di recuperare la fiducia delle persone, terrorizzate da una pressione psicologica e collettiva senza precedenti. Come se sentissimo che l’imprevisto era dietro l’angolo. Sembrava che si potesse recuperare la fiducia nei cinema e nei teatri, le platee si stavano riempendo nonostante la fatica di indossare la mascherina per tutta la durata del film o dello spettacolo. I dati di Agis oltretutto rassicuravano rispetto al rischio di contrarre il virus nei luoghi di cultura (1 contagio su 347 mila spettatori). C’è chi sostiene che tali dati non siano attendibili poiché il tracciamento su cui sono stati elaborati è impreciso. Di certo non serve la statistica di Agis a intuire che in un teatro è semplicissimo garantire il distanziamento e tutte le altre misure di sicurezza.
Eppure le premure non sono bastate, proprio mentre ci convincevamo che il rinsavimento culturale post-pandemico a cui tutti auspicavamo si stesse per realizzare ecco arrivare l’imprevisto: una seconda chiusura. E daje che le chiese sì, ma i teatri no, e le palestre sì e i teatri no. Inspiegabile per me che avevo appena finito di lavorare in teatro ed era il luogo in cui mi sentivo più al sicuro che nel resto della giornata (condividevo un piccolo appartamento con una collega). A ottobre ho viaggiato su un aereo pieno per andare a lavorare in un teatro vuoto. Tanto che mi sono chiesta se la mia percezione del rischio fosse sbagliata o dovesse adattarsi ai luoghi che frequentavo. E del resto talmente è stata forte l’azione di chiudere i teatri che per giustificarla è stato dichiarato che la misura era stata adottata per evitare assembramenti sui mezzi pubblici utilizzati per raggiungere gli stessi. Chiudiamo i teatri per non sovraffollare i mezzi pubblici ma non pensiamo di monitorarne la capienza con dei controlli straordinari, come ho potuto constatare a Roma.
Inevitabile pensare che i teatri ancora una volta siano stati stigmatizzati e ritenuti superflui alla vita pubblica. Lungi dal negare o minimizzare l’emergenza, che c’è eccome, ma mi sento di dire che l’arte non è tra le priorità di questo governo. E di quale altro? Mi domando scoraggiata. L’Italia ha un problema con l’arte, nonostante questa componga il 17% del PIL*.
Volevamo curare e curarci dalla grande paura che pervade le nostre giornate, sentirci utili nella gestione dell’emergenza ristorando l’umore collettivo, incoraggiando la fiducia, preparando la società intorno a noi al riavvicinamento sociale. E’ di questo che ci occupiamo noi che facciamo il teatro. Riempiamo il metro di distanza potenziando la comunicazione tra le persone, lo facciamo con i nostri laboratori, inventiamo modi per compensare l’abbraccio mancato, o stimoliamo l’osservazione di questa mancanza che di sicuro porterà a nuovi significati, personali e collettivi.
Ma non è stato possibile. I teatri restano chiusi, ancora, vengono venduti sui siti immobiliari quanto un trilocale al Pigneto come è il caso del Teatro Sociale di Amelia venduto per circa 400 mila euro, o del Teatro Adriano di Roma. E come non menzionare lo sgombero del Nuovo Cinema Palazzo, avvenuto lo scorso 24 novembre, vicenda che meriterebbe un capitolo a parte. C'è chi annuncia addirittura l'intenzione di convertire i teatri in luoghi per ospitare la campagna di vaccinazione. La sola idea mi fa tremare, ma dall’altro lato finalmente tutti indosserebbero gli occhiali che indosso io quando guardo un teatro: una chiesa laica, un tempio dove compiere riti di catarsi e liberazione. “L’ospedale delle anime” come lo chiama la mia maestra Emma Dante.
Noi Barbe à Papa Teatro ci troviamo a casa, di nuovo, a progettare il più incerto dei futuri possibili, con due spettacoli pronti e un cappello piccolo così con dentro un sogno da realizzare.
Una cosa è certa: le nostre valigie sono sempre a portata di mano, pronte per essere riempite. Di nuovo.
Federica D’Amore
Barbe à Papa Teatro
* “Io sono cultura” - rapporto annuale elaborato da Unioncamere e Fondazione Symbola – 09/12/2019